martedì 25 dicembre 2012

UN FUTURO CHE NASCE LONTANO - "Il patriota e la maestra" Ed. Quodlibet 2012, di Vito Teti




in collaborazione con Biblioteca Palatina di Parma e informaCIBO,




Parma 13 Dicembre - AUDITORIOM di PARMA LIRICA, Via Gorizia, 2.


 Un Futuro che nasce lontano


 Programma

“Il Patriota e la Maestra” di Vito Teti
(ed. Quodlibet 2012)

La misconosciuta storia d’amore e ribellione
di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del risorgimento

Saluto delle autorità
 
introduzione di Raffaele D’Angelo

Modera:

Rocco Caccavari
 
Dialogano con l’Autore:

Angela Malandri

Gino Reggiani

Gabriella Corsaro canta di donne moderne in un tempo antico
al pianoforte Svetlana Kononenko

Saranno presenti i discendenti dei due protagonisti del libro

Ore 21:00  -  Cena di accoglienza Parma Lirica 



 Una Bella Storia Calabrese

Il circolo dei Calabresi di Parma si raccoglie ancora una volta attorno alla testimonianza che alla Storia è stata consegnata da due protagonisti di grande significato: Giovanna Bertòla e Antonio Garcèa. Sono personaggi che hanno dato al loro tempo senso e significato con la qualità appassionata che li ha portati a vivere esperienze sociali e politiche con le quali hanno contribuito alla storia del Risorgimento Italiano.
Vito Teti, antropologo Calabrese, fa della loro vita una narrazione puntuale nei fatti, ma molto ricca dei sentimenti che a questi fatti hanno dato vigore.
Sono orgoglioso come Presidente del Circolo dei calabresi di aver potuto organizzare un'incontro che diventa un'altra occasione di studio e di divulgazione della buona indole politica e culturale di gente di Calabria.
Sono onorato che i discendenti dei due patrioti saranno presenti e mi piace pensare che questa nostra iniziativa loro dimostri l'attenzione e il rispetto della memoria che Vito Teti e noi abbiamo voluto mantenere come riconoscimento ai loro avi.
                                                                                              Il Presidente
                                                                                  Raffaele D'Angelo

 LE PAROLE CONSEGNATE
Scrittura e memoria
di Rocco Caccavari

E' difficile definire una tradizione letteraria che possa dare conto dei passaggi successivi che la cultura di una realtà territoriale, senza pensare al popolo che la produce, come testimonianza di una cronaca irripetibile che appare sempre uguale nella storia.
Il popolo, che una determinazione geografica definisce come meridionale, è stato sempre raccontato come portatore di una povertà di insieme, al punto che in letteratura diversi autori ne hanno sempre raccontato la sofferenza. Certo che la fatica del vivere, l'irraggiungibile emancipazione, da una fame perenne di diritti e di pane, che non consente quasi mai di andare a scoprire come una idealità profonda, invece, si consuma sotto il bisogno di sopravvivere in una realtà sociale che obbliga, appunto, a combattere per la sopravvivenza. 

Gli scrittori Calabresi hanno sempre raccolto le storie della propria terra attraverso la visione forzata, drammatica, che sembra immodificabile, di un popolo infelice, silenzioso, sempre fuori dal suo tempo, ma in un tempo sempre uguale: 



quello della povertà materiale che non permette alla immaginazione e alla fantasia e quindi alla ricerca di una possibile felicità, di costruire almeno qualche parte di vita che valga la pena consumare. Drammi quotidiani, d'una intera vita, per ognuno diventano i drammi secolari da cui è possibile il riscatto solo attraverso la fuga e l'abbandono di terre di luoghi, di sentimenti portando via le radici, che diventano la nostalgia costante del ritorno.



Invece penso che vada ricordato con più attenzione e con maggiore rispetto della fatica che costa l'anelito di stare dentro ai fatti, dei quali purtroppo, molto spesso, le circostanze difficili della vita, tengono fuori gli esseri umani apolidi, anche nella propria terra.                                                                             
Drammi quotidiani, d'una intera vita, per ognuno diventano i drammi secolari da cui è possibile il riscatto solo attraverso la fuga e l'abbandono di terre di luoghi, di sentimenti portando via le radici, che diventano la nostalgia costante del ritorno.
Invece penso che va ricordato con più attenzione e con maggiore rispetto della fatica che costa l'anelito di stare dentro ai fatti, dei quali purtroppo, molto spesso, le circostanze difficili della vita, tengono fuori gli esseri umani apolidi, anche nella propria terra.
Così le eccellenze nel campo del pensiero antico e moderno, nelle attività culturali per le quali le intelligenze e i saperi locali, hanno aiutato molto il progresso del mondo in generale "gli immigrati che diventano patria degli altri", ci permettono di dire che anche ai cambiamenti della storia, sociale e politica del nostro paese, il contributo delle genti del sud, è testimoniata da episodi esemplari.
Vito Teti riporta alla conoscenza per una lettura moderna, la storia di una pulsione politica e patriottica che fu anche una grande storia d'amore. Un agitatore di popolo, garibaldino, intellettuale inquieto, che a metà dell'ottocento si ribella, manovra, prepara e diffonde i principi del Risorgimento, Antonio Garcèa, per sollevare il popolo del sud verso un riscatto dalla sudditanza Borbonica. L'altra metà del cielo è Giovanna Bertòla, donna combattente, convinta sostenitrice dei diritti di genere, che mantiene la passione nel suo rinnovare continuamente la provocazione al potere con la stessa intensità con cui vive l'amore.
Solo per rappresentarne una significativa continuità, richiamo la lotta dei Calabresi durante la Resistenza, che in diversi luoghi di Italia, contribuirono anche con il sacrificio della vita alla nascita di una nuova Nazione. Anche questa è una storia che va ripresa e raccontata con l'urgenza che deve rappresentare verso i rigurgiti di conservatorismo che al sud frenano il progresso.


Intervento di Angela Malandri, autrice di una tesi di laurea sulla Bertòla e su "La Voce della donna".



 E’ maggio del 1861 quando Antonio Garcéa giunge a Mondovì alla guida della divisione Avezzana, insieme al generale Stefano Turr, avventuroso patriota ungherese, compagno d’armi di Garibaldi; con lui sta passeggiando per le strade della cittadina piemontese “invasa” dalle camicie rosse in attesa di essere integrate nell’esercito regio, quando incontra per la prima volta Giovanna Bertòla; tra i due è amore a prima vista: i documenti ci testimoniano che il 1 giugno, dopo solo un mese di conoscenza, i due decidono di sposarsi. La storia originale e intensissima di questa diciottenne piemontese che, prendendo assai seriamente il motto di Cavour “fatta l’Italia ora bisogna fare gli italiani”, dedicò tutta la sua vita all’istruzione ed emancipazione femminile, è ricca di avvenimenti che stupiscono e che ancora ci interrogano; in particolare colpisce la modernità del rapporto tra Giovanna e Antonio, che sempre hanno potuto contare sul reciproco sostegno e sulla reale condivisione degli ideali che li hanno portati a spendersi costantemente e senza riserve, superando anche la tradizionale divisione dei ruoli.


Singolare anche  la consapevolezza storica del proprio valore che ha portato Giovanna a raccontare lei stessa la sua storia:  nel palazzo della famiglia Olmi di Bobbio, dove visse gli ultimi anni della sua vita,   Giovanna ha raccolto, ordinato, e numerato in carpette viola parecchi documenti grazie ai quali possiamo ricostruire la sua attivissima vita, che si intreccia con i primi anni della storia della nostra nazione e che ci testimoniano la sua volontà di avere una posterità storica.  Attraverso una notevole quantità di documenti, lettere e fotografie ho potuto ri­costruire l'intensa vita e l'originale pensiero di Giovanna, fondatrice de “La voce delle donne”, primo giornale emancipazionista femminile in Italia, grazie al quale, secondo la mia tesi, possiamo anticipare l’inizio dell’emancipazionismo italiano agli anni 1865-70 e non nei primi del ‘900, come si è soliti affermare. (Angela Malandri).
                     













Garceà e Bertòla a Parma: 1864-1867
Vito Teti





I tre anni che Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla trascorrono a Parma sono importanti, centrali nella loro vita, densi, pieni di iniziative, sociali, culturali, editoriali, che avrebbero lasciato un segno nella città e, come si capisce oggi, nella storia culturale italiana. Parma non poteva che essere una metà obbligata e prioritaria per ricordare queste due figure grazie alle persone che ne hanno scritto (Gino Reggiani, Angela Malandri, Vito Teti). L’occasione, colta da associazioni e personalità di Parma, sostenuta dagli eredi di Garcèa, è data dall’uscita del libro “Il patriota e la maestra” di Vito Teti (Quodlibet 2012).
Il 28 luglio 1864, sul registro della popolazione del Comune di Parma, come ricorda Gino Reggiani, è segnalato l’ingresso in città del maggiore delle piazze Antonio Garcèa, alle dipendenze del colonnello Giuseppe Doria.
Con lui arriva in città la moglie, poco più che ventenne, con una bimba in braccio con un baule di libri, tra cui l’Emilio di Rousseau e anche scritti di forte impronta giacobina dei circoli femminili più libertari come il Circolo delle donne italiane di Venezia. Non sono due personaggi notissimi, ma non sono nemmeno due illustri sconosciuti. Garcèa: patriota, liberale, carcerato, amico di Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Sigismondo Castromediano, Nicola Palermo, poi, in prima linea, come sottoufficiale, durante la campagna garibaldina, da Messina a Mongiana, dalle Puglie a Capua. Lei giovane maestra appartenente a una famiglia benestante. I due si erano conosciuti conoscono a Mondovì, si sposano subito, scrivono le memorie. Dopo vari veloci passaggi tra Firenze, Empoli, Vasto, arrivano a Parma.
Sabina Magrini direttrice Biblioteca
Palatina di Parma
A Parma la famiglia Garcea-Bertòla si stabilisce in una casa di proprietà di un fornaio, al n. 42 di Borgo di Asse, a poche centinaia di metri da Piazza Duomo, vicino alla splendida e ricca Biblioteca Palatina. Una casa, con ogni evidenza, comoda e spaziosa, dove i Garcèa-Bertòla ospitano fino al giugno 1865 Bruno Bosco, nato nel 1854, figlio di Emanuela, sorella di Garcèa, e Capano Francesco, nato in Calabria il 25 dicembre 1854, artista di canto, e, a quanto pare, anche lui parente di Garcèa. I Garcèa dal novembre 1864, si erano spostati al n. 122 o 142 della Strada Maestra di San Michele, ed erano stati raggiunti da Barberina Bertòla, sorella minore di Giovannina, che, come ricordano Gino Reggiani e Angela Malandri, l’avrebbe sostenuta nelle sue iniziative e avrebbe svolto quelle mansioni femminili che avrebbero permesso alla sorella di portare avanti il suo impegno culturale, editoriale, scolastico a favore delle donne. Barberina, con la stessa istruzione della sorella, visse sempre alla sua ombra, si occupò dell’amministrazione dei collegi fondati Giovanna, oltre della crescita dei suoi bambini e della cura della casa.



Antonio Garcèa è l’ufficiale più alto in grado del Comando Militare dopo il comandante Doria, in una città, che come ricostruisce Angela Malandri, presenta un volto contrastante: dimamico e chiuso, aperto e clericale.
La giovane maestra si rende conto che l’ambiente culturale non era quello di Firenze, e tuttavia può contare sulla collaborazione di altre donne (che scrivono da altre parti d’Italia e anche dall’Inghilterra) e sul sostegno del marito, il cui nome compare nelle varie sottoscrizioni per la raccolta di fondi proposte dal giornale. Giovannina si dedica poco alla vita mondana e sociale e da Borgo delle Asse 42 raggiunge quasi quotidianamente la biblioteca molto fornita del Palazzo della Bilotta. Gerente responsabile del giornale è nominato Francesco Capano, un cugino calabrese, che viveva con loro a Parma. Il 30 settembre Capano chiede al Prefetto di Parma di concedere con celerità i documenti previsti dalla legge, affinchè il Ministro dell’Interno potesse rilasciare l’autorizzazione alla pubblicazione del periodico femminile. Il primo gennaio 1865 viene stampato nella tipografia di Pietro Grazioli di Parma il numero saggio, oggi introvabile de «La Voce delle donne. Giornale Scientifico Politico Letterario». La tiratura del saggio della rivista è di ben tre mila copie, la diffusione avviene in tutta Italia poiché il progetto dichiarato e perseguito dalla Bertòla era quello di dare vita a un giornale nazionale.
Nel periodo di Parma vengono conferite ad Antonio Garcèa varie medaglie commemorative per la sua partecipazione alle campagne insurrezionali e militari dal 1848 al 1861; gli viene conferita la medaglia d’argento al valor militare per la battaglia su Capua con il suo battaglione. Non mancano i problemi e le delusioni. 
La famiglia, peraltro, cresceva in quel periodo. Il 22 maggio 1865 nasce la secondogenita Luisa, Letizia, Alessandrina.
La madrina di battesimo di Luisa fu Louse-Julie-Caroline Murat (1805-1889), figlia di Gioacchino, consorte del conte Giulio Rasponi di Ravenna. Il fratello di Louise, Napoléon-Louis-Charles, aveva dato vita a un movimento murattiano molto in auge dopo l’ascesa di Napoleone III in Francia, ma al quale la grande maggioranza dei patrioti meridionali non aderì, optando per l’unità d’Italia con Vittorio Emanuele. Il figlio di Giulio Rasponi e Luisa Murat fu Gioacchino, patriota influente e vice presidente della Camera. Furono deputati e senatori anche altri membri della famiglia. Uno di essi, Achille Rasponi, un cui scritto di propaganda elettorale fu ospitato ne «La Voce delle Donne» del 22.10.1865, fu uno dei sottoscrittori per la fondazione di un Istituto internazionale femminile, collegio d’istruzione e di educazione, proposta da Giovannina Bertòla nel 1867.
Il secondo nome imposto a Luisa corrisponde a quello della sorella di Louise, Laetitia-Toséphine (1802-1850), che sposò il conte Gioacchino Pepoli di Bologna. Il loro figlio Gioacchino Napoleone fu anche patriota, deputato, ministro, ambasciatore e dal 1868 senatore del Regno, primo firmatario della sottoscrizione per un Istituto internazionale femminile lanciata da Giovannina nel 1867.
Il rapporto di Garcèa con la tradizione risorgimentale liberale e murattiana, che viene coltivato e probabilmente rafforzato dalla presenza della giovane moglie, è confermato dalla sua attiva, e certo non secondaria adesione, proprio in questo periodo alla massoneria. Non sappiamo se la giovanile adesione alla carboneria si fosse trasformata in adesione a qualche loggia massonica, certo durante la lunga prigionia Garcèa incontra numerosi patrioti, tra cui Settembrini, aderenti alla massoneria.
Il protagonista da questo momento non sarà Antonio, ma la giovane moglie. Egli ne segue e sostiene, con convinzione, le iniziative culturali, giornalistiche, editoriali, scolastiche.
Una rivista che nasce con il programma di «educare, istruire, consigliare, parlare di diritti e di doveri» delle donne è una novità assoluta nel paesaggio editoriale del nuovo Stato e sicuramente un passo in avanti importante nella storia dei movimenti femminili. La Bertòla pensava che l’istruzione femminile sarebbe diventata la smentita più clamorosa e vistosa delle teorie sull’inferiorità femminile e quindi sulla necessità di dare loro gli stessi diritti civili degli uomini, dal lavoro al voto alle elezioni.
La rivista, nonostante ostacoli e difficoltà, si è ormai fatto un fama nei circoli femmenili delle grandi città italiane. Interessanti sono i tanti articoli dal carattere sociale e in cui si denuncia l’abitudine di sottopagare il lavoro femminile o quelli in cui si invitano le donne a un impegno nella vita sociale e politica del Paese. Questa impronta, che ha un carattere radicale, trova espressione in un denso e bello articolo della Mazzoni, apparso il 22 gennaio 1867, e che porta il titolo L’istruzione nelle campagne. La Mazzoni sostiene la necessità di fondazione di asili per l’infanzia. Un forte sforzo della redazione, come ricorda Gino Reggiani, è quello relativo al voto delle donne.
È un fatto notevole perché le donne non godevano dei diritti politici. Nessun giornale prima de «La Voce delle Donne», come scrive Angela Malandri, reclamò il suffragio femminile, sollecitando le donne ad interessarsi delle vicende politiche.
La Bertòla e le collaboratrici si dedicano, in maniera puntuale, alla questione privilegiata fin dall’inizio, quella femminile dell’istruzione.
Nel n. 17 de «La Voce delle donne», preparato in gran parte da Teodorina Fanelli ed Adele Campana, veniva affrontato, in maniera decisa, il problema della questione dell’educazione religiosa delle donne e dei suoi effetti negativi sull’istruzione delle stesse. Queste prese di posizione suscitano ben presto l’opposizione della Chiesa e degli ambienti più conservatori. La rivista ha, inizialmente in ambiente moderato e su certa stampa locale (si veda «La Gazzetta di Parma» del 17 gennaio 1865) una buona accoglienza e anche qualche sostegno nella divulgazione. Ben presto riceve aspre critiche che arrivano soprattutto dal Vescovo di Parma Felice Cantimorri.
La risposta della Bertòla è decisa: 19 marzo 1865 la redazione denuncia la crociata fatta contro la rivista da L’Unità Cattolica e il boicottaggio che subisce nella distribuzione e nella esposizione nei negozi, a seguito della condanna del vescovo di Parma.  L’eco della condanna «corse rapidamente tutta l’Italia e la guerra più accanita ci fu mossa» e difatti delle 3000 copie spedite del primo e del secondo numero ne vennero restituiti ben 1200 in un sacco dinnanzi alla porta. E, infatti, come denuncia la redazione del editoriale, «presagito il male» che il periodico avrebbe potato arrecare ai reazionari, «tutte le sette nemiche diedero mano all’opera concordemente e la parola d’ordine partì per tutte le diocesi onde attraversare e osteggiare l’associazione di un foglio che esse chiameranno irreligioso». Boicottaggio nella diffusione  e non mancano nemmeno le ironie di giornali progressisti e liberali, di tendenze garibaldine. La scrittura non era considerata affare di donne. Critiche accanite arrivano da un periodico del filone socialista-umanitario, «L’Amico dell’Operaio».
L’ideologia patriarcale era condivisa dalle donne impegnate nel Risorgimento. Conservatori e liberali, laici e cattolici, anche democratici continuano a pensare che il posto della donna sia la casa: la loro maggiore istruzione era auspicabile ma solo per rafforzare il loro ruolo nella famiglia come madri ed educatrici. Il rapporto con Caterina Pigorini Beri, autrice nel febbraio del 1865 di un libretto sull’istruzione femminile Lettera sull’educazione delle donne,  moderata sostenitrice dell’istruzione delle donne che tuttavia debbono svolgere ruoli familiari tradizionali, rivela la difficoltà della rivista a penetrare anche nell’opinione pubblica più avanzata della città. La Pigorini Beri, sostenuta dalla stampa parmigiana per le sue posizioni, era stata attaccata sulla rivista cattolica l’ «Armonia» da un editorialista che si firma con lo pseudonimo di Frate Barba. Giovannina Bertòla scrive alla «cara sorella», dalle pagine della rivista, in data 16 settembre 1865, una lettera di difesa. La risposta di Caterina Pigorini Beri è cordiale, ma formale, rivela la preoccupazione di ribadire la distanza dalle posizioni de «La Voce della donna». Giovannina resta amareggiata e delusa.
Parma del resto si presentava inquieta e carica di tensioni; faide, lotte sociali, contrasti politici, piccole beghe. Giovannina Bertòla e le sue collaboratrici non arretrano, ribadiscono con forza le ragioni della loro voce. Il 15 gennaio 1866, la redazione, ricorda che, con il secondo anno di vita della rivista, il programma non cambia. «Esso si riassume sempre nelle parole: Diritti e Doveri, Istruzione e Lavoro per la donna, sia essa nata in Europa od altrove, appartenga ad una razza o ad un'altra. Il principio è uno, un solo è il problema, la verità, una la meta, il bene, uno il mezzo, la libertà, uno il rapporto, l'uguaglianza. Noi siamo convinte che, senza il pareggiamento e l'armonia dei due sessi, senza che i dritti e i doveri siano loro comuni, è impossibile il vero perfezionamento morale, civile e politico.
Quindi, senza disconoscere la gravità degli ostacoli che incontriamo per via, noi procediamo francamente come chi ha la coscienza di agire pel bene, paghe di aver trovato l’approvazione degl'intelligenti e degli onesti».
Fatto sta che, dopo solo quattordici numeri, il giornale dovette rinunciare al proposito ambizioso di uscire due volte alla settimana. Neanche la scadenza quindicinale può essere rispettata e il giornale uscirà mensilmente per il primo anno, quindicinalmente fino al maggio 1866 e nel 1867 verranno stampati soltanto due numeri. Malgrado tutto, il giornale, cosa assai rara, riesce a mantenere una diffusione nazionale e infatti vi si registrano abbonati in Sicilia e in Calabria, come a Firenze e a Modena. Non mancano, come è facile prevedere, le difficoltà economiche: nel 1866 la sede della redazione viene trasferita da Borgo Santa Brigida 6 a Strada San Michele 142, nella casa della famiglia Garcèa. La rivista vive tra difficoltà e appelli di sostegno. Anche molte collaboratrici vengono meno e Giovannina Bertòla scriverà pagine del giornale pubblicando lettere di lettori maschi, cui risponde in maniera polemica e con piglio giacobino. Il 1 gennaio 1867, come ricordano Reggiani e Malandri, esce l’ultimo numero a Parma e, nella Biblioteca Palatina è conservato un numero, l’ultimo, stampato a Firenze, su incoraggiamento della Mozzoni, datato martedì 22 gennaio 1867. L’Avviso agli associati, a firma La Redazione, di questo ultimo numero.
La chiusura della rivista avviene probabilmente anche a ragione del periodo di difficoltà di  Antonio, che li avrebbe portati altrove: ad Empoli, probabilmente dopo una breve permanenza a Firenze.  Viene ribadito, dal primo all’ultimo numero, l’impegno delle donne a costruire l’Italia e gli italiani, come voleva la tradizione Gioberti, Balbo, D’Azeglio, ma con lo sguardo, la sensibilità, il punto di vista femminile.
La Bertòla tenace e combattiva, si rende, probabilmente, conto che i tempi non sono ancora maturi per portare avanti una battaglia solitaria. Occorreva fondare scuole in tutta la penisola perchè «la civiltà e il progresso vanno di pari passo colla maggiore o minore istruzione della donna», come scriveva Adele Campana  su  «La voce delle donne» del 1 marzo 1865.
Il 1 gennaio 1867 Giovannina Bertòla aveva scritto: «Una società progredisce, sol quando l’influenza della donna si fa sentire, quando ella concorre, sia pure indirettamente, alla sua legislazione, a’ suoi costumi, alle sue credenze. Se la civiltà può essere considerata come l’annientamento della forza brutale è alla donna che lo si deve».
Il periodo di Parma, esaltante e difficile, pieno di entusiasmi e di amarezze, di consensi e di critiche, che danno alla Bertòla una notorietà nazionale almeno negli ambienti colti e femminili, si conclude il 1 marzo 1867 quando Antonio Garcèa viene posto in aspettativa «per riduzione di corpo», in conseguenza della forte riduzione delle spese militari. La famiglia decide, forse, di trasferirsi a Firenze, nella nuova sede del governo, in attesa di una qualche nuova collocazione di Antonio. La Bertòla cerca di nascondere la delusione e l’amarezza, ma immagina che probabilmente anche la messa in aspettativa del marito possa essere una ritorsione di quell’Italia conservatrice e perbenista che ormai non vedeva di buon occhio gli “eroi” che l’avevano costruita.
 Garcèa non gradisce l’aspettativa: ottiene di essere messo a riposo per poter così andare a combattere volontario con Garibaldi, che il 23 ottobre 1867 varcava i confini dello Stato Pontificio per prendere Roma. La sconfitta di Mentana o qualche altra circostanza familiare modifica i programmi di Garcèa, che non si sentiva a suo agio in quella sorta di “accantonamento” che conoscevano tanti ex combattenti contro i Borboni e che avevano combattuto con Garibaldi o con i garibaldini. Probabilmente sia Antonio che Giovannina pagano il loro giacobinismo e anche le posizioni anticlericali e innovative. La famiglia Garcèa nell’autunno del 1867 si è trasferita ad Empoli, forse dopo una breve permanenza a Firenze.
Comincia un nuovo movimentato, ricco avvincente periodo: viaggi, fondazioni di scuola, direzione di scuola, morte di Antonio.
Fine luglio 1864-autunno 1867: poco più di tre anni, ma sono tra i più importanti per la storia dei due e per la storia culturale di Parma e, anche, di una giovane nazione.
Parma è una tappa fondamentale e irripetibile. L’incontro quasi a metà strada tra quel Regno di Napoli, la Napoli dove si era ribellato Garcèa, e Mondovì dove era nata e si era formata la Bertòla. Un incontro tra uomo e donna, che danno vita a una rivista che passerà nella storia. 

Si Ringraziano le ditte Calabresi:
APOCC , Pecorino Crotonese -  Azienda Agricola Parrilla Vini Cirò -   Nduja San Donato -  COZAC - Casearia Crotonese, Chiellino


















Piccola rassegna stampa

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Gazzetta di Parma articolo di L. Molinari
Articolo conclusivo Gazzetta di Parma